Il rapporto Debito pubblico PIL del nostro Paese ha raggiunto il 158,9% nel 2020 ed il Governo si è già espresso in merito alle linee programmatiche da attuare, una volta superata la presentazione del Recovery Plan, per rendere sostenibile il debito italiano nel medio lungo termine. I provvedimenti da adottare verteranno, in particolare, su due aspetti: gli interventi sulla spesa pubblica, da una parte, e quelli sul fronte fiscale dall’altro. Per la spesa pubblica assisteremo, probabilmente, al contenimento di quella “cattiva”, come l’ha definita Draghi, cioè quella corrente, ed allo stimolo, invece, della spesa pubblica “buona”, cioè quella che andrebbe a finanziare gli investimenti ed a favorire la crescita. L’adozione di provvedimenti sul lato fiscale, invece, si concentreranno, probabilmente, da un lato, sulla rimodulazione del sistema, con un alleggerimento della pressione sui redditi e, dall’altra, sull’inasprimento delle tasse sui patrimoni. Focalizzando la nostra attenzione sull’argomento degli inasprimenti fiscali, in particolar modo per quanto concerne quella parte legata ai patrimoni, la domanda da porsi è la seguente: quali basi imponibili potrebbero avere la maggiore probabilità di essere colpite con i futuri provvedimenti? Scrutando in breve quanto accaduto nella storia del nostro Paese, possiamo constatare come in Italia siano già state applicate, in passato, diversi tipi di imposte patrimoniali. La prima è, addirittura, datata 1920 con il governo Nitti, quando l’Italia usciva dal primo conflitto mondiale e, quindi, presentava un debito pubblico particolarmente elevato. Negli anni 1936, “37 e “38, il governo Mussolini, invece, introdusse le imposte del 3,5% sulle proprietà immobiliari, del 7,5% sul capitale delle società di persone e, addirittura del 10%, su quelle di capitali. Per quanto riguarda, invece, uno dei diversi governi De Gasperi, nel 1950 fu introdotta un’altra patrimoniale pesantissima, tra il 6 ed il 61% sui patrimoni delle persone fisiche. La storia delle patrimoniali prosegue ancora nel secolo scorso con l’INVIM del 1973, imposta sulle plusvalenze immobiliari, l’introduzione dell’ICI, sempre sugli immobili e, nel 1992, nella notte tra il 10 e l’11 luglio, con il prelievo forzoso del 6 per mille sui conti correnti e depositi, introdotto dal governo Amato. La storia ci insegna che le patrimoniali ci sono state, hanno sempre colpito gli immobili, ed hanno sempre previsto esenzioni per quegli strumenti già agevolati fiscalmente. Se poi allarghiamo l’analisi dalla storia d’Italia all’attualità, cioè alla situazione odierna in Europa, il quadro non cambia. La patrimoniale forse più nota di tutte è quella francese. Si chiamava “imposta sulla fortuna” che, nel 2017 con Macron, ha cambiato il suo nome in imposta sulla “fortuna immobiliare”. Il governo francese ha scelto di modificarne la base imponibile concentrando la pressione fiscale sugli immobili poiché le imposizioni su investimenti e patrimoni mobiliari erano andate ad influire negativamente sull’occupazione e la crescita economica. In Germania esisteva fino al secolo scorso una patrimoniale annuale che colpiva tutto il patrimonio delle persone fisiche ma, nel 1998, la Merkel decise di trasformare questa tassa in una imposta locale sugli immobili, equivalente alla nostra IMU. Anche in Gran Bretagna esiste una patrimoniale, anche lì è annuale e riguarda gli immobili, con aliquote che oscillano tra il 3 ed il 4%. Anche estendendo l’osservazione ai vari Paesi dell’OCSE, più della metà del gettito fiscale di questi deriva dagli immobili, seguita dalle transazioni finanziarie e dalle imposte di donazione e successione che, tra l’altro, nel nostro Paese sono particolarmente basse. A preoccupare ancora di più le famiglie è il fatto che, sia la Commissione Europea, sia il Fondo Monetario Internazionale che l’OCSE, hanno espresso più volte indicazioni circa l’adozione di provvedimenti di inasprimento fiscale per quei Paesi, come l’Italia, con rapporto critico debito pubblico PIL. Tutti questi suggerimenti andrebbero verso un modello cosi definito dei tre pilastri, che dovrebbe anche condurci verso un’armonizzazione fiscale a livello europeo. Si tratterebbe di un modello che prevede la riduzione dell’imposta sui redditi ed un contemporaneo aumento delle imposte sugli immobili e di quelle indirette sui patrimoni, in particolare di quelli successori. Inoltre, dobbiamo sottolineare anche che esistono diversi progetti di riforma in Italia, ad esempio quella del catasto avviata nel 2014 che ha subito un rallentamento, per i quali si stanno riavviando i lavori. Dobbiamo ricordare, inoltre, come lo stesso Draghi ha chiarito che abbiamo bisogno, non di un singolo intervento ma, di un riequilibrio di tutto il nostro impianto fiscale che, quindi, dovrebbe portare a quell’impostazione del sistema basato sui tre pilastri prima descritti. Solo qualche settimana fa Mario Monti suggeriva di andare a rivedere le imposte successorie del nostro Paese, attualmente molto distanti da quelle della media europea. Da noi un figlio non paga nulla per un’eredità sotto il milione di euro mentre, per la parte eccedente, verserebbe allo Stato solo il 4%. Un francese, invece, verserebbe dal 5 al 45%, con una franchigia di 100.000 €, mentre un inglese pagherebbe un’aliquota fissa del 40%, per patrimoni sopra le 325.000 sterline. Quindi, riassumendo, ci sarebbero argomenti validi per ritenere che i provvedimenti futuri potrebbero, quasi certamente, mettere al centro inasprimenti fiscali sugli immobili e sui patrimoni, specie quelli in successione.